Attualità

29 Novembre 2022

Vuoto a rendere, seri dubbi sull'applicabilità in Italia

Un nuovo provvedimento europeo rischia di compromettere il nostro sistema di riciclo 


Vuoto a rendere, seri dubbi sull'applicabilità in Italia

L’Italia è il terzo produttore al mondo di imballi di vetro per uso alimentare, alle spalle di Stati Uniti e Cina, con 4,7 milioni di tonnellate di vetro cavo prodotto nel 2021, di cui 2 milioni vendute all’estero. Il recupero e riciclo, pertanto, gioca un ruolo importante.

Tuttavia, se il nuovo provvedimento europeo sulla gestione dei rifiuti dovesse passare così come è stato proposto, con misure per ridurre l'over packaging e l'introduzione del sistema del deposito cauzionale a partire dal 2028 se non si raggiungono tassi di raccolta di materiale superiori al 90%, emergerebbe più di qualche problema.

«Grazie alla legge che 25 anni fa ha creato il sistema consortile in Italia, il nostro Paese è ormai da due/tre anni oltre i target di riciclo fissati dalla Ue per il 2030» spiega al Sole 24 Ore Gianni Scotti, presidente di CoReVe, consorzio del sistema Conai che raggruppa 109 aziende del vetro, tra recuperatori e riciclatori, importatori industriali e commerciali, e produttori di imballaggi.

«Lo scorso anno abbiamo avviato al riciclo quasi 2,2 milioni di tonnellate di rifiuti di imballaggi in vetro, su circa 2,4 milioni conferite alla raccolta differenziata. Nel contempo stiamo lavorando con Anci, l’Associazione dei Comuni italiani, per ridurre quelle circa 400mila tonnellate che, ancora oggi, finiscono purtroppo in discarica, attraverso un investimento di circa 10 milioni di euro a sostegno degli enti locali».

Il problema maggiore che si prospetterebbe qualora si tornasse alla formula del vuoto a rendere è legato al tipo dell'imballo. A differenza di altri Paesi come ad esempio la Germania, dove la birra è confezionata in bottiglie pressoché identiche le une alle altre, da noi ogni azienda opta per varietà di forma e colori e questo avviene per soddisfare le esigenze di marketing.

«Il vuoto a rendere implicherebbe ricevere indietro, in ogni punto vendita, i contenitori dei prodotti utilizzati che poi dovranno essere mandati a chi si occuperà di disinfettarli, rimuovere l’etichetta, applicarne una nuova e reimmettere sul mercato lo stesso imballaggio rigenerato»
spiega Scotti. «Il sistema è particolarmente complesso e richiederebbe alla grande distribuzione di mettere a disposizione spazi aggiuntivi e differenziati a seconda dei prodotti, senza contare le distanze fisiche per rimandare i rifiuti esattamente a quello specifico produttore».

Diversa la questione nel settore Horeca dove, questo tipo di processo, potrebbe essere semplificato dal fatto che ogni albergo, bar o ristorante, abbia un numero limitato di fornitori che consegna e ritira i prodotti in grandi quantitativi. «In tale ambito il riutilizzo è già ben implementato, con una quota del 96% per l’acqua minerale e del 27% della birra, ma nei supermercati comporterebbe costi aggiuntivi che, alla fine, ricadrebbero come sempre sul consumatore finale» afferma il presidente di CoReVe aggiungendo che si tratta di un sistema che potrebbe funzionare per grandi quantitativi oppure entro i 200 chilometri di distanza per il tragitto dal punto di raccolta al produttore. 

«Oltre questa distanza diventa svantaggioso non solo dal punto di vista economico, ma anche ambientale. Il vetro è un materiale che si presta al riutilizzo, ma che pesa molto e quindi richiederebbe tantissimi autotreni per il trasporto, con relative emissioni di CO2, senza contare l’utilizzo della risorsa acqua per disinfettare gli imballi e togliere le etichette» conclude Scotti.


TAG: COREVE,GIANNI SCOTTI,RICICLO,VETRO,VUOTO A RENDERE

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