Attualità
06 Febbraio 2023Risultano in crescita le difficoltà per il format icona dello stile di vita italiano
Dal 2012 a oggi il numero delle imprese che svolgono attività di bar è diminuito di circa 15 mila unità e ogni anno almeno 10 mila sono quelle che cessano l’attività. Il risultato è che il tasso di sopravvivenza a cinque anni dei bar non raggiunge il 50%, ossia su 100 imprese che avviano l’attività ne sopravvivono meno di 50 a distanza di cinque anni.
I tempi del Florian a Venezia, del Gilli a Firenze, del caffè Greco a Roma o del Gambrinus a Napoli, sembrano essere davvero lontani. Di questo si è parlato nel corso della tavola rotonda “Le sfide del bar del futuro: qualità, professionalità e innovazione” che FIPE ha organizzato in occasione del recente Sigep di Rimini.
L’incontro è servito a esplorare un settore nel quale lavorano, tra dipendenti e indipendenti, oltre 300 mila persone con una forte diffusione territoriale (2 imprese ogni mille abitanti, 9 comuni su 10 hanno almeno un bar) e con apertura 7/7 per una media di 14 ore giornaliere. E dove è in aumento la presenza di imprenditori stranieri con una particolare vivacità della comunità cinese.
Sono oltre 12 mila, il 12,2% del totale, i bar gestiti da stranieri con punte che in alcune regioni come la Lombardia sfiorano il 20% o addirittura lo superano come in Veneto e in Emilia Romagna.
«Stanno in questi numeri le difficoltà che attraversa il format bar, stretto nella morsa di una competizione sempre più sfrenata e di un modello di gestione che riesce a conciliare costi e ricavi solo attraverso enormi sacrifici personali di chi ci lavora, soprattutto se si tratta del titolare e dei suoi familiari» dichiara Matteo Musacci, vice presidente di Fipe Confcommercio.
«Tenere in piedi un’azienda che deve pagare stipendi, canoni di locazione esagerati e attualmente bollette fuori controllo, con caffè e cappuccini al prezzo di poco più di un euro sta diventando sempre più difficile. Se a questo aggiungiamo che anche muovere i listini per adeguarli all’inflazione è complicato, il rischio che i conti non tornino è evidente.
Occorre ripensare il modello di business partendo dal presupposto che tenere aperto 7 giorni su 7 per oltre 14 ore al giorno non sempre è economicamente sostenibile. E aggiungo che non lo è anche guardando alla sfera personale di chi, come capita a molti di noi piccoli imprenditori, è costretto a garantire una presenza continua sacrificando vita personale e affetti» conclude Musacci.
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