25 Luglio 2014

Il vino italiano fatto con le polverine si compra online: gli esperti si incontrano per affrontare il problema


I preparati in polvere per preparare  in casa il vino “fai-da-te” si vendono regolarmente online e vengono fraudolentemente associati a vitigni italiani.  Come abbiamo già scritto la produzione di questi preparati in polvere avviene  nei cinque continenti, ivi compresa l’Europa e rappresenta una contraffazione alimentare.

wine.kit.jpgLe vendite sono effettuate sia online, sia al dettaglio. Stiamo parlando dei “wine kit” venduti su siti come Amazon.it, che permettono di produrre a casa, in sole 4 settimane, un simil-vino al costo di poco più di un euro a bottiglia. Nel cofanetto c’è tutto: succo d’uva concentrato, lievito, e altri 5 pacchettini di polveri varie da impiegare secondo le istruzioni. Sul sito di una di queste aziende viene presentata addirittura una “selezione europea”, in cui troviamo: Chardonnay, Pinot, Verdicchio, Soave...

L’Arma dei Carabinieri è già intervenuta contro questa forma di contraffazione alimentare un anno fa nel Regno Unito in raccordo con l’Interpol - con una serie di sequestri. Si è trattato di un evento storico, poiché forse per la prima volta nella storia la lotta alla contraffazione del made in Italy alimentare è passata, dal livello locale al livello europeo come forma di contrasto alle frodi, grazie all’impiego degli strumenti di cooperazione di polizia internazionale, sino ad allora riservati al crimine organizzato e al terrorismo. Tuttavia l’operazione britannica ha solo scalfito la punta dell’iceberg. La vicenda è complessa e, per evitare di risolversi in una battaglia contro i mulini a vento, deve venire affrontata con un approccio sistemico.

Le legislazioni vigenti in ogni lembo del pianeta Terra, o quasi, tutelano i consumatori rispetto alle frodi. E vendere preparati in polvere come vini di prestigio integra fuori di dubbio una frode, trattandosi di prodotti radicalmente diversi, realizzati con metodi (di fermentazione e maturazione) incomparabili. Ma le denominazioni dei vini, e le indicazioni geografiche che vi si associano, possono venire liberamente utilizzate - e addirittura registrate come marchi, ricordiamo il caso del prosciutto di Parma in Canada - in tutti i Paesi extra-europei che non abbiano definito accordi di mutuo riconoscimento delle rispettive GI ("Geographical Indications") con la UE o i suoi Stati membri.

Su questo tema lo scorso mese a Roma, presso l’Ufficio relazioni con il pubblico del Corpo forestale dello Stato, si è tenuto il workshop "Contraffazione e wine Kit", insieme a Frodialimentari.it e Fareambiente, con il patrocinio di Consumerismo e Mdc, Codici e Codacons. Una vicenda che il Fatto Alimentare ha seguito e a più riprese e trova ora occasione di ulteriori approfondimenti. I Consorzi più avveduti si sono mossi per tempo, nel registrare i rispettivi marchi a livello internazionale. Ben poco purtroppo, rispetto alla miriade di tipi di uva e vini caratteristici dei nostri territori. È perciò necessario che i rappresentanti politici e diplomatici europei antepongano il reciproco riconoscimento delle indicazioni geografiche all’avvio di qualsivoglia negoziato per il libero scambio delle merci (vedasi India e USA). Nella misura in cui le autorità di controllo nazionali siano chiamate a verificare il rispetto dei diritti facenti capo ad altri Paesi, senza dover rispondere a organismi internazionali sulla base di criteri condivisi, l’efficacia delle loro verifiche continuerà a essere velleitaria. Lo hanno dimostrato i tedeschi, ostinati a non sanzionare le imitazioni di Parmigiano reggiano fino a che costretti dalla Corte di Giustizia di Lussemburgo. Il sistema di audit del Food & Veterinary Office della Commissione europea sui sistemi dei controlli pubblici ufficiali nazionali, consolidato nel cosiddetto Pacchetto Igiene (reg. CE 852, 853, 854, 882/04 e seguenti) deve venire esteso sia alle verifiche sulla corretta informazione ai consumatori, come accennato nei “considerando” del reg. UE 1169/11, sia alle attività di indagine su violazioni dei diritti legati alle indicazioni geografiche e più in generale sulle frodi.

Al di là delle affermazioni di principio, bisogna definire i meccanismi di assistenza e cooperazione amministrativa tra le Autorità degli Stati membri e tra queste e quelle dei Paesi terzi. Le procedure di comunicazione e allerta sulla sicurezza alimentare in corso di implementazione tra i grandi blocchi - Europa, Golfo Persico, Cina, USA - devono venire estesi sia in ambito territoriale ad altre aree del pianeta, guardando ai BRIC e alle economie emergenti, sia nel campo di applicazione, che non può prescindere dai controlli sulle frodi. Bisogna quindi sviluppare gli accordi internazionali in tal senso. Il consumatore è la variabile indipendente di ogni mercato, o quasi. Non si può dunque ostacolare la richiesta globale di merci contraffatte, nel nostro caso di alimenti e bevande Italian sounding, senza spiegare ai cittadini di ogni parte i valori dei prodotti originali. Ma come raggiungere con efficacia i consumatori dei cinque continenti? Anzitutto, sviluppando strategie di comunicazione geo-localizzate. Vale a dire, anzitutto, utilizzando gli idiomi in auge presso le varie popolazioni. Tenendo conto delle loro culture e sensibilità, che a seconda dei casi possono privilegiare le garanzie sulla sicurezza alimentare, piuttosto che i legami coi territori, la storia e la cultura, o ancora gli stili di vita e i modelli di consumo. One size does not fit all, insegnano i sarti di Bond Street come le grandi agenzie di comunicazione. E allora, bisogna investire sulla comunicazione, multi-lingua, opportunamente mediata con le diverse culture. Come a suo tempo ha provato il Gambero Rosso, con la traduzione in cinese della sua guida ai vini d’Italia, e come tuttora sul web il portale GIFT, in 7 lingue.

Da parecchio tempo ormai sono disponibili standard globali di comunicazione all’interno della filiera (Global Standard, GS1, coordinati in Italia da Indicod-ECR, con 35.000 imprese iscritte nella produzione e distribuzione). I codici a barre hanno compiuto i loro primi 40 anni, gli RFID consentono oggi la tracciabilità completa delle merci sia nel corso della supply-chain, sia all’interno degli stabilimenti. Si tratta di codici identitari univoci e riconoscibili ovunque, a costi relativamente modesti. È giunta l’ora per gli operatori della filiera di riconoscere il valore di questi strumenti, a garanzia dell’autenticità delle merci from the farm to the fork. Per le autorità di controllo, di familiarizzare con gli stessi ai fini dell’ottimizzazione e semplificazione delle verifiche, in nome del superiore interesse della tutela dei consumatori. Ciò vale per gli alimenti come per altri FMCG (Fast Moving Consumer Goods), a partire dai farmaci che sono pure oggetto di diffuse e ancor più pericolose contraffazioni.

Fonte Il Fatto Alimentare

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